E QUALCUNO BUSSO’
di Luisa Caeroni

Agli inizi del ’44, il partigiano Giuseppe, ansioso di vivere la sua storia d’amore, predispose le cose affinché Matilde, la sua ragazza, potesse stargli vicino, visto che la guerra sembrava non terminasse mai. Aveva deciso di condurla a Lipario, il paese vicino al quale stanziava il suo gruppo. Parlò con i genitori di Matilde esponendo i progetti di matrimonio. Questi l’ascoltarono senza proferir parola e alla fine, inteneriti dall’entusiasmo del giovane, acconsentirono.
Non ci volle molto tempo per i preparativi. Il cibo scarseggiava in quei momenti ed anche per un matrimonio c’era poco da organizzare: avvisare amici e parenti, un grazioso vestito per la sposa e poi, via, verso un destino che alla fine della guerra sarebbe stato certamente luminoso. Giuseppe era tenero ed intelligente, esperto in ogni tipo di manovalanza e capace di districarsi in tutte le situazioni difficili. Matilde si sentiva garantita per il futuro.
Nei giorni che precedettero le nozze, alla giovane tornarono in mente i momenti dell’adolescenza, quando, sdraiata sull’erba sfruttando il dolce declivio del prato di casa, sognava l’avvenire. Guardava il cielo con gli occhi socchiusi per non essere abbagliata dalla luce, oppure fissava le foglie degli alberi di cachi, mentre i pensieri correvano dolci e meravigliosi. Cosa si sarebbe avverato di tutti quei sogni, si chiedeva durante i preparativi. Così arrivò il giorno tanto atteso.
Verso la fine d’aprile, davanti all’altare della Madonna, Matilde e Giuseppe celebrarono il loro matrimonio.
La sposa fissava attonita l’effige della Vergine senza riuscire a concentrarsi su quello che stava avvenendo. Il sacerdote compiva i riti della messa e l’assemblea lo seguiva raccolta nell’apparenza e distratta nell’intimo. Tutti conoscevano il celebrante e lo apprezzavano per la bontà d’animo e la schiettezza di pensiero. Si trattava di un marcantonio d’uomo del quale molte ragazze erano segretamente innamorate. A lui erano affidate le adolescenti di “Azione Cattolica” e le giovani lo seguivano con enfasi. I convenuti alla cerimonia tuttavia non avrebbero mai potuto supporre ciò che dopo sole poche settimane sarebbe accaduto. Il sacerdote sparì misteriosamente senza che la comunità ne conoscesse il motivo. Alcuni mormoravano a bocca storta, le sue ragazze pregavano: erano brutti momenti e si pensava sempre al peggio. A distanza di tempo, dopo la fine della guerra, comparve in parrocchia un vecchio prete dalla faccia rossa coperta di cicatrici. Camminava sulla punta dei piedi con un incedere quasi saltellante. Era il bel curato di allora ricomparso in misere condizioni dopo una lunghissima convalescenza per le lesioni procurate dalle torture dei fascisti. La sua voce squillante non si udiva più. Poche parole farfugliate nel confessionale dove saliva chi aveva qualcosa di troppo da farsi perdonare.
Dopo la cerimonia ed un frugale pranzo, Giuseppe dovette partire in tutta segretezza per riprendere la postazione in montagna e la novella sposa, con l’aiuto delle sorelle, preparò le poche cose per il viaggio.
All’indomani, quando ancora era notte, un carrettiere aspettava sulla soglia del portone con alcune masserizie caricate sul carro e tutta la famiglia, schierata sulla strada, assistette muta alla partenza. Le sorelle fingevano allegria; i genitori azzardarono sottovoce alcune raccomandazioni. Poi il carro incominciò a muoversi per dileguarsi nell’oscurità. Il buio aveva nascosto gli occhi pieni di lacrime della giovane, ma anche lei non poteva immaginare tutta l’angoscia che i suoi genitori provavano in quel momento.
Il percorso per raggiungere la destinazione era lungo ed estenuante. Bisognava risalire tutta la Valle Buriana fino al Passo della Sellotta per poi scendere in Val di Sellen e arrivare a Lipario.
Furono lunghi chilometri di silenzi e di grandi interrogativi.
La sposa era sola in quel viaggio ironicamente chiamato il viaggio di nozze, sola con il carrettiere, perché il marito, nella sua condizione di disertore, non poteva farsi vedere in giro e doveva spostarsi clandestinamente.
Al primo chiarore, la giornata si rivelò serena e Matilde riusciva di tanto in tanto ad abbandonare ogni preoccupazione per osservare il paesaggio che via via le si presentava. Erano proprio affascinanti quei monti che si stagliavano nel cielo azzurro e i fiori di primavera che spuntavano come sempre, nonostante la guerra! Nei campi non si vedeva alcun uomo, solo donne vestite di nero con il fazzoletto in testa. Le case erano rivestite di legno con accanto fascine accatastate. Non erano scenari consueti per Matilde e questo fu un buon motivo di distrazione. La natura mostrava tutta la sua bellezza e lei si sentiva in consonanza con l’infinito.
Dopo alcune ore il cavallo iniziò ad arrancare notevolmente, la valle volgeva al termine e la strada proseguiva tortuosa verso il passo. All’apice del Passo della Sellotta, si vedeva la sottostante Val di Sellen e, in lontananza, un villaggio sperduto in un anfiteatro di creste rocciose. Il cuore di Matilde iniziò a battere più forte.
Raggiunta la nuova dimora, la ragazza trovò una donna sconosciuta ad aspettarla. Suo marito non c’era. La persona che l’accolse era la proprietaria di casa e dell’annessa merceria. Giuseppe, appena i suoi impegni glielo permettevano, l’aiutava a vendere fili e matasse di lana in giro per il paese. La donna aveva forse meno di cinquant'anni, ma l’abbigliamento austero, la capigliatura grigia, annodata sulla nuca, tipica delle donne di montagna, le davano l’aspetto di una vecchia contadina. La merciaia mostrò all’ospite quella che sarebbe stata la sua abitazione. La giovane, osservando quella stamberga, fu assalita da forte sgomento. Si trattava di un angusto locale, prima adibito a legnaia, dove all’interno primeggiava un letto malmesso con un materasso di paglia, abitato da colonie di pulci; poi c’erano: un comò, un vecchio armadio, una logora credenza, un tavolo e quattro sedie sgangherate. Matilde rimase sconcertata a lungo. Era questo che Giuseppe aveva preparato per lei? La delusione più pesante tuttavia fu l’assenza di suo marito. Cercò di riconquistare la calma giustificando ogni cosa come logica della guerra. Si rimboccò le maniche per rendere vivibile quella topaia; sistemò la biancheria e i pochi indumenti contenuti nei bagagli poi, appese all’ingresso una bella giacca che aveva acquistato per suo marito, quindi, stanchissima, si coricò pensando al suo amore. Chissà quando avrebbe potuto incontrarlo! Lo sapeva impegnato in missioni rischiose, ma ora c’era lei vicina ad aiutarlo!
Trascorsero alcuni giorni, ma di Giuseppe nessuna notizia e Matilde si abbandonò al più nero sconforto. In quel tugurio, sola più che mai, provò l’amaro sapore dell’emigrante. Ti svegli il mattino in un posto sconosciuto, nessuno prova amore per te, mentre l’affetto dei tuoi cari diventa un ricordo che si allontana sempre di più. Hai tanti bisogni e non sai a chi rivolgerti. La casa ti sembra una cella e la gente, un nemico da sfuggire. Non possiedi nulla ed avresti bisogno di tutto. Sei in balìa di molti estranei che ti fanno sentire in difficoltà solo perché non sei uno di loro.
La vedova, notò il disagio della forestiera e, mossa a compassione, la invitò a trascorrere le giornate nel proprio appartamento. Matilde accettò di buon grado, ma pativa terribilmente: era trascorso troppo tempo dal suo arrivo per non avere notizie di Giuseppe.
“Stai tranquilla, vedrai, lui arriverà quando meno te lo aspetti, può essere impegnato in un’azione importante, in ogni modo sa che sei in buone mani.”.
La giovane l’ascoltava silenziosa, riponendo fiducia nelle esortazioni ottimistiche della merciaia.
Una sera si sentì bussare violentemente alla porta. Aprendo si trovarono davanti due soldati tedeschi con il fucile in spalla. I militari dichiararono di dover perquisire l’abitazione e senza attendere risposta, entrarono. Guardarono in ogni posto e mentre uno saliva al piano superiore con la merciaia, l’altro si fermò in cucina, si avvicinò a Matilde e delicatamente le diede un bacio sulla bocca. La ragazza, impietrita, non batté ciglio, ma le sue gambe sembrava non volerla più sostenere. Per fortuna si udirono subito i passi dell’altro tedesco scendere le scale, così fu sospeso ogni approccio. Terminato il controllo, quello che aveva perquisito il piano superiore, parlando in italiano stentato, spiegò che stavano cercando un uomo che la mattina saliva con un camion verso il Passo del Bubbione con sacchi di farina trafugati ai rifornimenti militari. L’automezzo, inseguito dalle camionette tedesche, era precipitato lungo la scarpata. Del conducente però non avevano trovato alcuna traccia.
“Qui ci sono solo io e mia figlia” si affrettò a precisare l’anziana donna con voce piagnucolante ”non ci sono uomini. Nostri uomini kaputt” e si diresse con falsa indifferenza verso l’uscita. I due soldati la seguirono. Imboccando la porta, scorsero una giacca maschile appesa all’attaccapanni e, facendo un repentino dietrofront, chiesero spiegazioni con fare brusco. Le gambe della vedova divennero molli e il suo sguardo sornione assunse di nuovo un’espressione triste. Raccontò che si trattava della giacca di suo marito, ormai defunto, che lei indossava per uscire perché era nuova, bella pesante e proteggeva efficacemente dal freddo. Fu convincente. I soldati si allontanarono.
Richiusa la porta, le due malcapitate recuperarono contemporaneamente una superficie piana capace di ospitare il fondoschiena e si abbandonarono a sospiri di sollievo. Qualche breve frase sullo scampato pericolo, poi il loro discorrere puntò sull’uomo precipitato con il camion lungo la scarpata. Matilde sentì le forze venire meno: si trattava probabilmente del suo Giuseppe. La strada del Bubbione era conosciuta solo dai contrabbandieri: stretta, a tratti scavata nella montagna, senza protezione a valle, pericolosissima da percorrere con automezzi. La merciaia rovistò nella sua capace tasca ed estrasse una corona del rosario. “Preghiamo”, mormorò abbassando il capo e facendosi il segno della croce. “Deus in audiutorium meum intende……“ “Domine ad adiuvantum me festina….” Contrattaccò Matilde. Le voci uscivano cantilenanti dalla bocca, con incomprensibili sbiascicati termini di presunto latino, ma la mente sapeva implorare con forza ciò che il linguaggio ecclesiastico sottraeva al lessico comune.
Quella stessa notte si sentì bussare leggermente, poi dei fischi sommessi e familiari. Le donne li riconobbero e si affrettarono ad accostare la porta.

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